Come funziona il suicidio assistito in Svizzera?

Dignitas è un'associazione svizzera che permette il suicidio assistito. Dj Fabo ha scelto di morire lì. Ma come funziona?

Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo, ha deciso di morire a causa delle sue condizioni di salute. Ha deciso di farlo in Italia, ma purtroppo, è dovuto andare in Svizzera, per superare i limiti legali del nostro paese. Antoniani è stato accolto dall’associazione Dignitas, che abbiamo contattato per farci spiegare come avviene il suicidio assistito. Per capire cosa sia questa realtà, il cui nome completo è Dignitas. Vivere degnamente – morire degnamente, è meglio capire cosa non è e cosa non fa. Innanzitutto non è una clinica. Non ci sono infatti medici o personale infermieristico. Non c’è un pronto soccorso, non è una struttura per ospitare dei degenti per giorni o settimane, e men che meno per ricevere trattamenti sanitari di alcun tipo. Sono in contatto con dei medici, ma sono indipendenti dall’organizzazione. Dignitas non attua l’eutanasia volontaria. Nonostante quanto si possa credere, infatti, ciò in Svizzera è proibito. “Tra l’altro, il termine eutanasia è ambiguo”, ci spiegano. “Deriva dal greco, e significa buona, mite o dolce morte. Ma la parola è stata usata in accezioni anche molto diverse tra loro. Dalla soppressione degli animali a certe pratiche nell’olocausto della Seconda guerra mondiale”. A Dignitas si può invece effettuare il suicidio assistito, o più precisamente il suicidio accompagnato. Non sono sottigliezze linguistiche. Implica infatti mettere fine alle proprie sofferenze in modo cosciente e preparato, ma soprattutto attraverso un’azione autonoma. L’azione si traduce, di fatto, nella auto-somministrazione di un farmaco letale. C’è solo un tipo che viene usato, il Pentobarbitale sodico. Viene generalmente bevuto. Ma ci sono rare eccezioni dovute all’impossibilità di deglutire, per esempio a causa di un cancro alla gola. In questi casi ci sono altri due metodi. Per via endovenosa o con la sonda gastrica. “L’aspetto più importante è che il paziente sia sempre nel controllo delle proprie azioni”, precisano. “Deve essere in grado di compiere l’ultimo atto da solo. Chi non è proprio in grado di farlo, non lo possiamo aiutare”. Il tutto deve avvenire in modo cosciente e nella piena facoltà di giudizio. Una volta stabilito l’inizio del processo, c’è un periodo preparatorio. Normalmente dura tre-quattro mesi, ma a volte molto di più. Da Dignitas tengono a precisare che la loro è soprattutto un’attività di prevenzione al suicidio. Soprattutto per evitare il suicidio fai-da-te. “Non è il fatto di farlo, ma di avere l’opzione di farlo”, spiegano da Dignitas. “La libertà di scelta aiuta a vivere più rilassati, con meno paura del futuro e della sofferenza. L’accesso a un’uscita di emergenza reale e professionale può evitare di andare a schiantarsi contro un treno, saltare dai palazzi, spararsi, ecc. Ancora più importante, è che la persona non sia lasciata sola, ma possa farlo in presenza di familiari o persone amiche”. L’argomento fa sicuramente paura. E c’è da chiedersi se questa possibilità non possa istigare persone in un momento particolarmente difficile a una decisione estrema come anche nei casi di forte depressione che sono sempre più in aumento soprattutto tra i giovani. È il caso di Shanti, la giovane donna di 23 anni che ha chiesto (e ottenuto) di morire in Belgio in quanto soffriva di stress post traumatico e di una depressione profonda. Sopravvissuta ad un attentato terroristico che l’ha lasciata fisicamente illesa ma l’ha segnata per sempre dal punto di vista emotivo. Al punto da farle decidere di porre fine, a soli 23 anni, alla sua vita con l’eutanasia. Cosa può aver spinto Shanti De Corte, giovane belga, a chiedere il fine vita? La sua era quella che clinicamente viene definita depressione maggiore, un disturbo che colpisce soprattutto le donne e caratterizzato spesso da istinto suicida.
Il dolore
A 17 anni Shanti De Corteb era in aeroporto per iniziare quella che sarebbe dovuta essere una delle esperienze più spensierate della vita, una gita scolastica con meta Roma, insieme a tutti i suoi compagni di classe. Quel giorno, il 22 marzo del 2016, l’Isis mise in atto un attacco terroristico all’aeroporto e un altro in metropolitana. Morirono 32 persone più i 3 attentatori suicidi. Lei restò illesa fisicamente ma da allora si è portata dentro un dolore insopportabile tanto che, pur prendendo psicofarmaci, aveva tentato due volte il suicidio e due volte aveva fallito.
I sintomi dello stress post-traumatico
Attacchi di panico, depressioni, sintomi da stress post traumatico: “Mi sveglio e prendo medicine a colazione, poi fino a undici antidepressivi al giorno. Senza non posso vivere, ma con tutte queste medicine non provo più niente, sono un fantasma”, scrive sul suo profilo Facebook. E ancora: “Non riesco più a concentrarmi su niente, voglio solo morire”. Quella di cui soffriva Shanti era una depressione maggiore, un disturbo caratterizzato da un importante calo del tono dell’umore, una riduzione di interessi e di attività piacevoli, cambiamenti nel contenuto del pensiero e alterazioni della cognizione, oltre a problematiche vegetative, come alterazioni del sonno e dell’appetito. Il disturbo depressivo maggiore si manifesta in prevalenza nel sesso femminile, con un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso maschile e colpisce circa il 6% della popolazione mondiale. Si stima, inoltre, che una persona su sei sviluppi almeno un episodio di depressione maggiore nell’arco della sua vita. E in Italia? “Dei 3 milioni e mezzo di depressi – risponde lo psichiatra Roberto Mencacci – calcoliamo che circa il 20-25% abbia caratteristiche di resistenza ai trattamenti, il che significa che si è sottoposto ad almeno due trattamenti farmacologici senza esiti positivi. Soffrono di forme di depressione maggiore circa un milione e duecentomila persone con una prevalenza tra le donne perché hanno una componente ansiosa molto importante e una caratterizzazione più marcata in alcune fasi della vita come quella della gravidanza e della menopausa. Le fasce d’età in cui si manifesta vanno dai 25 ai 40-45 anni ma dopo la pandemia stiamo vedendo un aumento della depressione anche tra gli adolescenti tra i quali si registra una spinta suicidaria importante come dimostrano i casi di suicidio assistito via web”.
I campanelli d’allarme
Cosa deve far scattare l’allarme nelle persone che sono vicine a chi è depresso? “Quando notiamo che la persona perde completamente la motivazione e il senso del fare le cose”, risponde lo psichiatra che aggiunge: “I segnali da cogliere sono un’alterazione del pensiero con progettazione suicidaria e manifestazioni psicotiche. Le persone che soffrono di depressione maggiore possono avere deliri di colpa, rovina, catastrofismo anche riferiti a inadeguatezze, a colpe che non hanno commesso ma che percepiscono come non riparabili, manifestazioni somatiche come l’idea di avere una malattia incurabile”. Nei Paesi Bassi, in Belgio, in Lussemburgo e in Svizzera, l’eutanasia o suicidio assistito (EAS) non è limitata ai pazienti con malattie organiche, ma anche a pazienti psichiatrici. Per esempio, nei Paesi del Benelux, la “sofferenza insopportabile” dovuta a condizioni mediche (somatiche o mentali) che “non possono essere alleviate” è tra i requisiti di ammissibilità per ottenerla (in assenza di ragionevoli alternative). In effetti, il dolore psicologico/mentale può diventare intollerabile e presenta substrati neuroanatomici sovrapponibili a quelli del dolore fisico. Nei paesi in cui questa procedura è consentita, le persone che la richiedono sono in progressivo aumento. Ed in Italia cosa facciamo oltre a favorire il cosiddetto turismo del suicidio assistito in Svizzera? Probabilmente l’unica altra opzione sarebbe una regolamentazione legislativa priva di dogmi e ideologie. Come per tutto il resto, d’altronde.

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